Ente Morale D.L. 5 aprile 1945, n. 224

Ente Morale D.L. 5 aprile 1945, n. 224
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I GRUPPI D’AZIONE PATRIOTTICA
LA GUERRIGLIA URBANA NELLA RESISTENZA
di Marco Grilli

La Resistenza in città contro l’attesismo. 

All’indomani dell’armistizio dell’otto settembre 1943, gli occupanti tedeschi e i fascisti della neo-costituita Repubblica Sociale Italiana (RSI) dovettero controbattere nelle grandi città la fiera opposizione armata dei Gruppi d’Azione patriottica (GAP), nuclei clandestini costituiti dal Partito comunista alla fine del settembre 1943, allo scopo di rispondere col terrore al terrore dell’occupazione nazi-fascista. Giorgio Bocca li definì: “La minoranza ossessionata e ossessionante che arroventa la massa inerte delle grandi città, il nucleo disperato che trasmette alle moltitudini la sua volontà”. Mario Fiorentini, uno dei fondatori dei GAP di Roma, chiarì gli obiettivi dell’organizzazione: “La Wehrmacht non era più invincibile; dovevano sentire che non erano padroni di Roma, che avevano una popolazione ostile.Noi dovevamo attaccare le linee di comunicazione, i loro passaggi, il transito degli automezzi, gli automezzi in sosta, i comandi; e in particolare questo fatto, che loro non dovevano sfilare impunemente per la città. In altre parole volevamo imporre che Roma fosse davvero città aperta”. 

Organizzazione, metodi di lotta e principali azioni. 

I GAP, protagonisti del terrorismo anti-nazista e anti-fascista in città, dipendevano esclusivamente dal Partito comunista e dalle Brigate Garibaldi. Particolarmente importanti per esser stati tra i primi organismi a scendere immediatamente sul piano della lotta armata, considerate le difficoltà organizzative e logistiche della prima fase della Resistenza condotta dalle bande in montagna, erano composti da gruppi di 3-5 elementi, isolati fra di loro e appartenenti ad unità che contavano al massimo una trentina di combattenti. Incisero notevolmente sull’efficacia dell’organizzazione le esperienze maturate dai militanti comunisti nella guerra civile spagnola e nella resistenza francese. I gappisti vivevano nella più rigida clandestinità: per ragioni di sicurezza ogni gruppo era sconosciuto agli altri; all’interno d’ogni unità si trovavano addetti al rifornimento d’armi ed esplosivi, staffette, artificieri, incaricati per la fornitura di documenti falsi e rifugi ed infine informatori sugli obiettivi delle azioni. Si trattava di un’organizzazione complessa e articolata che concedeva una notevole libertà alle diverse unità: tra i comandanti più noti spiccarono Ilio Barontini, Giovanni Pesce, Giorgio Amendola, Antonello Trombadori, Carlo Salinari, Walter Nerozzi e Aldo Petacchi. Decisi a colpire militarmente e moralmente i nazifascisti, in ogni luogo ed in ogni momento, questi nuclei rivoluzionari compirono sabotaggi, operazioni militari e attentati su obiettivi specifici quali i “fascisti responsabili di azioni contro la popolazione, ex dirigenti e responsabili del regime fascista dimostratisi particolarmente reazionari; dirigenti e responsabili dell’attuale fascismo repubblicano, del governo del venduto Mussolini, membri della milizia repubblicana e della Guardia nazionale repubblicana; collaboratori aperti, decisi e attivi dei tedeschi, spie ecc.”. Non quindi una guerra cieca e indiscriminata ma un terrorismo urbano mirato a colpire gli elementi più pericolosi e connotati ideologicamente, una violenza esemplare contro i principali nemici del popolo e della libertà, quali i torturatori, le spie, i collaborazionisti etc. Le azioni fulminee e imprevedibili di questi partigiani ebbero costi altissimi, in termini di caduti al loro interno e rappresaglie sulle popolazioni civili, ma anche una notevole efficacia sul piano dei danni materiali e sul clima di paura e insicurezza generato tra gli occupanti, incapaci di controllare pienamente il territorio e di esplicare liberamente il proprio dominio. Scriveva un giornale delle Brigate Garibaldi: “Il terzo fronte deve creare per i nazifascisti un’atmosfera di odio e terrore; questi criminali non devono più sentirsi sicuri e tranquilli in nessun luogo, ovunque devono sentire odio e disprezzo, ovunque devono vedere nemici, ovunque una mano armata che li colpisca”. A Bologna i GAP colpirono la polizia ausiliaria organizzata dai tedeschi nel febbraio 1944 per la repressione partigiana: furono giustiziati ben 17 agenti in cinque giornitanto che su circa 500 elementi ne disertarono ben 150 mentre altri passarono addirittura alla lotta partigiana; questi duri metodi volti a generare paura non mancavano di produrre buoni risultati per la lotta di liberazione. Il gappismo è stato definito come la guerra partigiana messa in scena davanti ad un pubblico di massa; le azioni terroristiche privilegiarono le grandi metropoli, più consone alla necessità di vivere in clandestinità, permisero la conquista di uno spazio pubblico ai “ribelli”, disorientarono il nemico –i tedeschi pensarono perfino che i gappisti non fossero italiani ma terroristi inviati da Mosca o dagli anglo-americani, esagerandone la consistenza numerica data la rilevanza degli attacchi- ed infine “pubblicizzarono” agli occhi della popolazione l’esistenza di un nucleo di intransigenti, votati a battersi fino in fondo per dimostrare la debolezza del nuovo stato fascista repubblicano. Nonostante l’esiguità numerica (nelle metropoli del nord non superarono mai i 40-50 elementi), i gappisti furono protagonisti di colpi di mano eclatanti, ne citiamo alcuni: al 2 ottobre 1943 risale il primo attentato, quando presso Milano Egisto Rubini fece saltare in aria un deposito di munizioni, sempre nel capoluogo lombardo il 18 dicembre cadde sotto il fuoco dei gappisti il federale Aldo Resega; a Torino fu colpito il 29 ottobre il seniore della milizia Domenico Giardina, mentre nel febbraio 1944 sette bombe danneggiarono il comando tedesco; a Firenze il 1° dicembre 1943 cadde il comandante del distretto militare Gino Gobbi, accanito persecutore dei renitenti, un mese più tardi sette detonazioni colpirono diverse sedi del comando tedesco in città; a Bologna il 18 dicembre 1943 fu attaccato il comando nazista insediato a Villa Spada; nella capitale il 18 dicembre 1943 una bomba provocò dieci morti fra tedeschi e fascisti frequentanti la trattoria di Via Fabio Massimo, otto giorni dopo Mario Fiorentini lanciò uno spezzone contro il corpo di guardia tedesco in Regina Coeli ed in seguito la rabbia gappista si abbatté sull’Hotel Flora, sede del comando e del tribunale di guerra nazisti. Gli episodi più duri e discussi che maggiormente colpirono l’opinione pubblica e il CLN furono l’attentato di Via Rasella a Roma, triste preludio all’eccidio delle Fosse Ardeatine, e l’uccisione del filosofo Giovanni Gentile, Presidente dell’Accademia d’Italia e fiero sostenitore del fascismo repubblicano; nel furore della guerra civile i gappisti ritennero punibili le responsabilità politiche di uno dei più influenti intellettuali fascisti. L’attivismo gappista provocò smarrimento e forti reazioni in campo nazi-fascista: l’estensione del coprifuoco; il divieto delle biciclette, principali mezzi usati per gli attentati; la spietata repressione dei ribelli ed infine le rappresaglie sulla popolazione civile, furono i principali metodi messi in atto dagli occupanti per riaffermare il proprio controllo sul territorio. 

La vita del gappista. 

La guerra partigiana si distinse per la sua volontarietà, la scelta individuale, meditata e finalmente libera che ogni resistente attuò nella propria coscienza, nell’eccezionalità del contesto storico che impose di stare dall’una o dall’altra parte della barricata, con gli oppressori o con gli oppressi. La rigida clandestinità e l’isolamento, le privazioni materiali imposte e la durezza dei metodi di lotta, significarono per i gappisti un periodo di vita angoscioso ed estenuante, il prezzo da pagare per il conseguimento dell’obiettivo finale: la cacciata dell’invasore e la conquista della libertà. Una guerra estrema, praticabile solo coi metodi del terrorismo, che richiese un ferreo sostegno ideologico, fondamentale per perdurare nell’azione e acquietare il travaglio interiore; preminente quindi il ruolo del commissario che: “Deve curare che la vita tutta speciale condotta dai gappisti non corrompa l’onestà e il carattere. Egli deve preoccuparsi che ognuno che uccida si senta un giustiziere, e non un assassino; che chi fa un colpo di recupero lo faccia convinto della giustizia del suo atto e non col senso di sentirsi un ladro”. Una scelta drastica e totale che investì tutti i lati dell’esistenza e impose una disciplina rigorosa e il freno ad ogni pietismo; spiegò Marisa Musu: “Se penso d’aver contribuito con una bomba a far saltare in aria un soldato tedesco, non penso che quello era un figlio di mamma, che era il padre di un bambino piccolo, non la vivo così. Vedo torturatori di Via Tasso, rastrellatori di ebrei, guardie ai campi di sterminio…”.  L’impugnare un arma per colpire a freddo il nemico fu un trauma rilevante che lacerò le coscienze di molti combattenti, uomini e donne, in gran parte operai e studenti, spesso cresciuti nell’ideale del socialismo e ora chiamati a violare la sacralità della vita; questo il racconto di un giovanissimo partigiano in attesa in Via Rasella: “Il giorno che stavo aspettando in piazza di Spagna che la colonna tedesca apparisse in fondo al Babuino, e pensavo che quegli uomini sarebbero morti non me ne importava nulla. Ma stando là in piedi nel tiepido sole del pomeriggio, e vedendoli sfilare, mi risuonava dentro un motivo di E lucean le stelle…, e mi colavano le lacrime giù per le gote”. Ai gappisti erano richiesti freddezza, coraggio, volontà inflessibile e destrezza fisica; la loro esiguità si spiega anche con la difficoltà di tale scelta. Nella vita di questi combattenti mancarono i momenti di condivisione propri della guerriglia in montagna, scrisse nel suo diario un gappista bolognese: “Passarono altre tre giornate, tre interminabili giornate di solitudine e di fame. Le trascorremmo svogliati e inerti, guardando dalle finestre, sfogliando i pochi libri rimasti, dando la caccia ai pidocchi e bestemmiando contro la sorte”. Quei partigiani urbani che avevano partecipato alla guerra civile spagnola rimpiansero quel periodo, caratterizzato dagli scontri faccia a faccia in campo aperto; ora invece la sensazione di essere braccati, la necessità di colpire di sorpresa con azioni fulminee, il rischio altissimo di esser catturati, torturati e uccisi, caratterizzavano la vita di questi combattenti chiamati a vincere la stanchezza esistenziale e il disgusto per la realtà dell’epoca, con la speranza di lottare per un futuro migliore. I gappisti scelsero la resistenza attiva e, dichiarando guerra all’occupante, si mostrarono pronti a uccidere e farsi uccidere; lontani dalla mistica mortuaria fascista, non si considerarono votati alla morte ma la sopportarono con dignità e orgoglio. Una volta catturati una triste sorte toccava a questi “solitari rivoluzionari”, costretti a sopportare indicibili torture per non rivelare i nomi dei compagni: a Roma l’artificiere Giorgio Labò fu tenuto 18 giorni con le mani legate dietro la schiena ma rifiutò di parlare e finì fucilato a Forte Bravetta; Gianfranco Mattei, altro artificiere dei GAP, s’impiccò nella sua cella in Via Tasso per paura di cedere alle torture del tristemente noto tenente Priebke e tradire i compagni. Una scelta imbracciata con ardore e portata fino alle estreme conseguenze era quella dei GAP. Non mancarono casi di puro eroismo, come quello del 17enne operaio torinese Dante di Nanni che, il 17 marzo 1944, rimasto gravemente ferito in seguito ad un attacco ad un reparto fascista, riuscì a raggiungere la base in Borgo S. Paolo e, assediato dai tedeschi che aprirono il fuoco perfino con un cannoncino anticarro, dopo aver lanciato otto bombe a mano ed esaurito le munizioni, evitò di consegnarsi al nemico gettandosi dalla finestra col pugno alzato, gridando viva l’Italia. I GAP pagarono un prezzo altissimo in vite umane (circa il 50% dei componenti); in gran parte finirono fucilati dopo orribili sevizie e torture. A Roma l’organizzazione subì un tracollo in seguito all’arresto di Guglielmo Blasi, uno dei presenti in Via Rasella, uomo di dubbia moralità che, arrestato in seguito ad una rapina commessa per proprio conto, passò agli ordini del famigerato Pietro Koch, comandante di una speciale polizia fascista, facendo arrestare quasi tutti i suoi ex-compagni.

FONTE: Instoria rivista on line di storia e informazione

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