Ente Morale D.L. 5 aprile 1945, n. 224

Ente Morale D.L. 5 aprile 1945, n. 224
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ECCIDIO DI CRAVASCO
Quale rappresaglia per l'uccisione di nove tedeschi - caduti il 22 Marzo a Cravasco in uno scontro coi partigiani della Brigata "Balilla" al comando di "Battista" (Angelo Scala) - la notte del 23 Marzo i nazifascisti prelevarono da Marassi 20 detenuti politici e, caricatili ammanettati su di un autocarro, li trasportarono a Isoverde. Lungo il tragitto due prigionieri riuscirono a fuggire. Gli altri diciotto vennero avviati a piedi sino a Cravasco dove, nelle vicinanze del cimitero, furono fucilati. Il partigiano Arrigo Franco Diodati "Franco", colpito con gli altri compagni, riuscì miracolosamente a salvarsi.
I Martiri di Cravasco

La documentazione su questo tragico evento conservata presso l'Istituto per la Storia della Resistenza di Genova, risulta particolarmente abbondante e di grande valore, perché arricchita, caso eccezionale, dalla testimonianza di un sopravvissuto, che ha ricostruito l'accaduto sia allora, sia in commemorazioni successive nel corso degli anni, sia in un'intervista del 1995 il cui testo si trova presso l'archivio dell'Istituto.Come detto in precedenza, uno scontro a fuoco avvenuto il 22 marzo 1945 tra una decina di partigiani della brigata volante "Balilla", esperti in tattiche di guerriglia, e nove tedeschi, caduti nell'imboscata, si concluse con la sconfitta e la morte di questi ultimi. Nonostante questo fosse un episodio di guerra, e nonostante la direttiva dell'Obergruppenfuehrer Karl Wolf, emanata dieci giorni prima, in cui si ordinava, essendo ormai evidente l'approssimarsi della fine del conflitto, di astenersi dal compiere stragi, venne ordinata la rappresaglia. Furono così prelevati dal carcere di Marassi quindici detenuti politici, cui si aggiunsero altri cinque fatti uscire dall'infermeria dove erano stati ricoverati per gravi ferite in seguito allo sfortunato tentativo di liberare un compagno gappista, Masnata, dall'ospedale di San Martino . I venti prigionieri avevano capito cosa li attendeva per il fatto che erano stati svegliati in piena notte e che non gli avevano fatto portare nulla con sé, anzi all'ultimo gli avevano fatto togliere cappotti e persino giacche. In catene, vennero fatti salire su un camion coperto con un telo militare, come testimoniarono alcune suore della Val d'Aveto che si trovavano davanti al carcere, mandate dal fratello di Diodati (che era in prigione da tre mesi), Wladimiro, per proporre uno scambio di prigionieri. 

Cippo in ricordo dei Martiri

Il camion andò in direzione di Rivarolo e poi verso Pontedecimo. I prigionieri, individuarono il percorso e abbandonarono le ultime speranze di essere portati a Milano, per uno scambio di prigionieri o per l'avvio a un campo di concentramento. Discutendo con grande forza d'animo del destino ormai inevitabile, decisero di provare a salvare almeno qualcuno di loro, che potesse testimoniare l'accaduto, e infatti riuscirono a farne fuggire due che, all'altezza di Certosa, in una curva si buttarono da uno squarcio nel telone mentre gli altri li coprivano. Arrivati a Isoverde, vennero fatti scendere e avviati su un lungo e faticoso cammino. Ad uno dei feriti, "Tino" Quartini, era stata amputata una gamba, e le SS avevano gettato via le sue stampelle, perciò i compagni dovettero portarlo su per il sentiero, anche se con grande fatica e dolore, per poter morire insieme. Diodati ha testimoniato di uno stato d'animo, da parte di tutti, sereno, coraggioso e a momenti quasi esaltato dall'amicizia e dalla comunanza della stessa sorte, che li sostenne fino all'ultimo, quando furono fucilati dietro il muro del cimitero di Cravasco, a cinquanta passi da dove erano caduti i nove tedeschi, e nello stesso punto in cui, in un crescendo di violenza e di vendetta cui solo la Liberazione metterà fine, furono fucilati trentasei nazi-fascisti nella controrappresaglia del 4 Aprile.


Chi erano i fucilati
Oscar Antibo, 36 anni, nato a Savona, operaio della "Ferrania", appartenente alla 5^ Brigata della Divisione Garibaldina "Bevilacqua". Fu catturato il 26 novembre 1944.

Giovanni Bellegrandi (Annibale), 26 anni, ingegnere di Brescia, Sottotenente della Divisione "Centauro" dopo l'8 settembre entrò nell'organizzazione "OTTO". A Gennaio del 1944 giunse in Liguria, dal mare, su un mezzo alleato con il compito di addestrare i partigiani all'uso di armi e materiale lanciato dagli aerei angloamericani. Rischiando più volte l'arresto, Bellegrandi riuscì con molte difficoltà a mantenere i contatti e a organizzare diverse azioni. Venne arresato il 19 gennaio 1945 dalle SS, condotto alla Casa dello Studente e torturato.

Pietro Bernardi, 35 anni, nato a Duermens (Germania), appartenente alla Brigata SAP "Jori".

Orlando Bianchi (Orlandini), 45 anni, era nato a Genova. Membro del CLN di Uscio e del CMRL (comando militare regione Liguria). Fu arrestato dalle SS a Genova nel dicembre 1944 .

Virginio Bignotti (Franchi), biellese di 57 anni,  ex maggiore dell'esercito, esperto militare del comando SAP. Arrestato insieme ad Arrigo Diodati nella sede clandestina del comando  SAP il 27/12/1944

Cesare Bo (Emilio), 
 21 anni, originario di  Genova Sampierdarena. Impiegato allo stabilimento elettrotecnico di Campi apparteneva  alla brigata SAP "Buranello". Fu arrestato il 15/12/1944 .

Pietro Boldo (Pierin) 31 anni di Nizza Monferrato. Appartenente alla brigata SAP "Alpron" venne arrestato dalle Brigate Nere l'8/1/1945 nella sua abitazione a Sestri Ponente e tradotto alla "Casa dello studente" dove fu torturato.

Giulio Campi (Cesare) 54 anni, di La Spezia. Capo reparto dello stabilimento Vittoria-Ansaldo e codirettore dell'ufficio aviolanci del CMRL. Arrestato dalle SS nel dicembre 1944.

Gustavo Capito' (Fermo), 48 anni, di La Spezia, Ten. Col. di Stato Maggiore, dopo l'8 settembre consulente del comando militare del CLN di Savona, quindi capo del servizio informazioni del CMRL. AFu arestato a Genova il 16/12/1944, poi tradotto alla "Casa dello studente" e torturato.

Giovanni Caru', 33 anni nato a Farno (Varese) il 22/12/1912. Operava nelle brigate SAP del centro.

Cesare Dattilo (Oscar) 24 anni, di Cogoleto. Meccanico aggiustatore alla "San Giorgio". Sfuggito al rastrellamento del 16 Giugno, salì in montagna e divenne comandante della brigata d'assalto "Buranello" della divisione garibaldina "Mingo". Catturato a Sassello il 9/12/1944, fu tradotto alla "Casa dello studente" e torturato.

Giacomo Goso, 50 anni, di Bardineto, laureato in legge; Operante nel savonese fu arrestato a Savona il 13/12/1944, poi tradotto con Capitò e Nicola Panevino alla "Casa dello studente".

Giuseppe Maliverni 20 anni, di Rivarolo. Disegnatore; membro dei GAP di Sampierdarena, raggiunse le formazioni della III brigata Liguria che subì pesantemente il rastrellamento della Benedicta. Riuscito a sfuggire all'accerchiamento Maliverni tornò in città e divenne vice comandante della brigata SAP "Buranello". Arrestato dalle Brigate Nere nel gennaio 1945, venne tradotto alla "Casa dello studente" e torturato.

Nicola Panevino 35 anni, di Carbone (Potenza), giudice presso il tribunale di Savona. Membro del CLN di Savona e appartenente alla brigata GL "Savona", che prenderà poi il nome di brigata "N. Panevino". Arrestato a Savona il 14/12/1944, fu incarcerato a Marassi e torturato per diversi giorni alla "Casa dello studente".

Renato Quartini (Tino) 21 anni, originario di Ronco Scrivia, disegnatore all'Ansaldo. Militante dei GAP, comandante delle Squadre d'azione del Fronte della Gioventù, guidò l'azione per liberare il gapista G. Masnata, ferito e piantonato all'ospedale di San Martino. L'azione fallì e in uno scontro con i "Risoluti" della X Mas di San Fruttuoso, Quartini venne ferito ad una gamba. Arrestato e trasportato all'ospedale, subì l'amputazione dell'arto e in seguito tradotto nelle carceri di Marassi. Insignito di Medagia d'oro al valor militare.

Bruno Riberti 18 anni, di Migliarino (Ferrara). Appartenente alla brigata SAP "Jori", partecipò con Quartini all'azione per liberare Masnata e nello scontro fu ferito gravemente allo stomaco. Arrestato, venne condotto all'ospedale di San Martino e in seguito al carcere di Marassi.

Ernesto Salvestrini (Amilcare) 22 anni, di Marina di Massa. Studente Fu arrestato durante una missione a Nervi.

Arrigo Diodati (Franco) Nato a La Spezia il 25/5/1926 da genitori antifascisti. Nel 1937 la famiglia andò in esilio in Francia dove entrò in contatto con gli ambienti antifascisti e, dopo l'invasione del paese da parte della Germania, col movimento clandestino. Nel 1943 Diodati rientrò in Italia, prima a La Spezia e poi a Genova, per partecipare direttamente alla lotta contro i nazi-fascisti nel Fronte della Gioventù. Diventò vice commissario politico delle brigate SAP di Genova. Arrestato verso la fine del 1944, torturato alla "Casa dello studente" e imprigionato a Marassi, fu prelevato il 23 Marzo 1945 per esser fucilato insieme ad altri diciannove patrioti. Scampato all'eccidio, raggiunge le formazioni partigiane nella zona di Voltaggio (brigata "Pio", divisione "Mingo") e partecipò alla liberazione di Genova.

Dalla sua testimonianza:

...Arriviamo, e, mentre un primo gruppo di compagni viene schierato contro un monticello, noi, che siamo rimasti indietro, assistiamo al loro massacro. Come sono tutti calmi e sereni i nostri compagni! Li guardiamo per l'ultima volta mentre con forza risuonano le loro ultime parole: "Viva l'Italia libe-ra!". Dei colpi secchi ed essi cadono. Subito dopo i due marescialli delle S.S. che ci hanno accompagnati, si avvicinano a loro, e con rabbia li finiscono uno per uno con dei colpi nella faccia. Siamo fieri di come sono caduti, mentre pensiamo a ciò ci apprestiamo ad imitarli. Veniamo allineati un po' più lontano. È strano come a due minuti dalla morte, tutto sembri normale e nulla ci impressioni.
Son così meravigliato di me stesso che non mi riconosco più. Ed in fondo sono contento d'esser giunto fino a questo punto, perché posso constatare con gioia, che non una esitazione, non una debolezza hanno tradito la mia fede. E l'indifferenza con la quale adesso mi trovo davanti al plotone di esecuzione ne sono una prova. E ciò non vale solo per me, ma bensì per tutti noi, per tutti i Compagni. Lì guardo con incoraggiamento e li esamino uno per uno: alla mia destra verso il Cimitero rivedo Bernardi: un bravo ragazzo che ha lasciato la moglie in prigione, poi vicino a me c'è Campi, un compagno di Certosa, che è uno dei più anziani fra noi, e che lungo il tragitto abbiamo adottato come il nostro papà. Alla mia sinistra vengono poi Quartini (Tino), Riberti, Antibo, Oscar e due altri giovanetti che completano il nostro gruppo. Intanto Riso, il capo posto della "IV" a Marassi, ch'è l'unico italiano venuto ad accompagnarci, ci toglie le manette; non ha nemmeno il coraggio di guardarci in faccia, lui che per mesi e mesi è stato il nostro guardia-ciurma, e se ci toglie le manette prima di massacrarci è soltanto perché ha paura di macchiarsi del nostro sangue, come è avvenuto per l'altro gruppo. E - l'unica cosa che tutti indistintamente gli chiediamo - è che, dopo averci sparato, venga subito a finirci per non farci soffrire.
Adesso è finita; ci baciamo uno per uno stringendoci forte, mentre con tutte le nostre forze gridiamo come i nostri Compagni: "Viva l'Italia libera!". Poi, una sparatoria, tutti cadono. Cadono perché solo io sono rimasto in piedi; non sono colpito e quindi attendo; attendo che i nostri carnefici, dopo essersi guardati come per chiedersi chi deve spararmi, si decidano, mi mirino una seconda volta e tirino. Questa volta, colpito al collo, mi accascio infine per terra. Sono immobile tra i compagni che gemono, mentre, la faccia contro terra, mi domando che cosa avviene.
Sono sbalordito, non riesco a capire perché ho ancora i sensi, perché non ancora morto, perché ragiono ancora. Ma ecco che i tedeschi si avvicinano per finircii, allora, temendo di non morire subito, chiamo Riso affinché mi dia il colpo di grazia. Lo chiamo due o tre volte ma non sente, forse perché i lamenti dei compagni morenti soffocano la mia voce. Ed allora attendo che mi si colpisca; ed attendendo odo delle vociferazioni tedesche, poi un tedesco che parla italiano gridare accanendosi contro di noi: "Farabutti, adesso non griderete più viva l'Italia ed abbasso il fascismo!" - ed odo dei colpi a destra ed a sinistra, proprio vicino a me, credendo sempre che siano per me, mentre invece niente, sempre niente.
Io non vedo niente di ciò che accade poiché sono colla faccia contro terra, ma ad ogni minuto che passa riesco sempre meno a capire perché sono ancora in vita. Penso che fra poco saremo gettati in una fossa comune, mi dico che forse allora, avvedendosi che non sono ancora morto, mi finiranno. Ed attendo quindi, ma nulla avviene. Sento voci e passi che si allontanano, poi un colpo di fischietto. Faccio il conto di quando siamo partiti da Marassi ed allora penso che può essere mezzogiorno, e che quindi i tedeschi saranno partiti per mangiare allo scopo di sotterrarci dopo, nel pomeriggio. Comunque, temendo che a poca distanza vi sia una sorveglianza pronta a reagire al minimo movimento, non mi muovo. Passano le ore e uno dopo l'altro sento tutti i compagni morire; Campi, che è vicino a me, è stato l'ultimo.
Sono in un lago di sangue e non mi posso muovere. Devo aver perso molto sangue, e, constatando che non articolo più la gamba destra, sto convincendomi che sto morendo dissanguato, quando mi accorgo che la gamba è semplicemente addormentata essendo da ore ed ore nella stessa posizione. Ma ad un tratto, notando che getto sangue dalla bocca, sto per riprendere speranza nella prossima fine, quando ancora una volta devo constatare che è assurdo e che il sangue non proviene che dalla ferita che ho al collo. Mentre rifletto, d'un tratto odo dei passi e delle voci di tedeschi che si avvicinano. In fretta allora cerco di nascondermi un po' meglio dissimulandomi sotto i corpi dei compagni. Sono minuti terribili ed interminabili: li odo avvicinarsi ancora, poi, proprio alla mia altezza, fermarsi. Sono in due e penso che forse cominceranno a gettarci nella fossa. Ma invece no, si chinano, ma solo per toglier gli scarponi ad un compagno, e poi ripartono.
Allora mi dico che ormai non ci interreranno che a sera, quando, improvvisamente riflettendo a ciò, per la prima volta mi balena nel cervello la speranza di una possibile salvezza. Infatti, tremando dall'emozione, penso che, se riuscissi ad attendere la notte, forse sarei salvo. Sempre immobile quindi continuo ad attendere; saranno già tre o quattro ore che sono così. Dopo un po' di tempo però, non udendo più nulla, mi azzardo per la prima volta, a guardarmi intorno per rendermi conto della situazione. E ciò che constato è che non vi sono più tedeschi, ma solo dei compagni selvaggiamente trucidati.
Vedo pure lì vicino il cimitero e quattro grandi cipressi che ne adornano l'entrata. Ad un tratto, pensando che forse i tedeschi potrebbero ritornare, decido di nascondermi. Trascinandomi per terra mi porto verso uno dei cipressi e, con uno sforzo di volontà, riesco ad arrampicarmici sopra. Lì forse potrò attendere la notte e forse, cosa incredibile, sarò salvo....
FONTE ILSREC

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